Cucine popolari: il mondo come dovrebbe essere

20180814_160309.jpg“Carissima, il 14 agosto festeggerò il mio compleanno con un pranzo alle Cucine Popolari, mangeremo tutti insieme: i miei invitati e i volontari. Non c’è bisogno di regali, io penserò al dolce e allo spumante, voi, se lo vorrete, potrete lasciare un’offerta a sostegno di questo bel progetto”.

E così sulla scia di un moderno invito whatsapp mi ritrovo in questa giornata di agosto in una delle sedi delle Cucine Popolari, un’idea che nasce da un pensiero semplice: dare da mangiare a chi è in situazione di difficoltà. Ori, la festeggiata nonché ideatrice di questo pranzo, ha un’innata capacità di tessere relazioni: sa far legare persone sconosciute con nodi stretti e sa far innamorare quelle persone degli stessi progetti di cui si è innamorata lei.
Mentre aspettiamo davanti all’ingresso che arrivino gli altri invitati, un ragazzo che ha appena finito il pasto esce, ci saluta e mentre fa per andarsene dice “Roberto god bless you”. Roberto è Roberto Morgantini, un uomo dagli occhi chiari e un sorriso accogliente, non solo uno degli invitati, bensì colui che per primo ha creduto nella forza dei pensieri semplici. E ci ha creduto tanto da decidere di sposarsi, a quasi settant’anni, chiedendo agli invitati un’offerta per la realizzazione delle cucine come regalo di nozze.
Si mangia e si chiacchiera e verso la fine del secondo, Roberto ci racconta delle Cucine Popolari con parole semplici e forti, come semplice e forte è questo progetto. Ci tiene a dire che tutte le persone che lavorano lì sono volontarie: nessuno percepisce uno stipendio e i fondi che utilizzano provengono da donazioni non istituzionali. L’integrazione, il prendersi cura dell’altro sono risposte semplici e alla portata di tutti, ma proprio tutti: anche dei bambini. Sì, perché tra i vari progetti che portano avanti ne hanno in campo uno con le scuole del quartiere in cui bambini e bambine di quarta e quinta elementare vengono in visita alle Cucine, aiutano a servire ai tavoli e chi non serve parla con le persone che si recano lì per il pranzo. Mi viene in mente una carissima amica, di sensibilità e delicatezza rare, che mi ha confidato di aver sempre avuto un’ancestrale paura dei “barboni”, della gente che vive per strada, che per strada dorme. Che bello sarebbe stato se la bambina che era avesse potuto godere della ricchezza di un progetto del genere! E com’è semplice in fondo, quasi banale, la soluzione alla paura dell’altro! La ricetta è sempre la stessa, fatta dagli stessi ingredienti: la conoscenza, la condivisione, che si tratti di una parola o di un pasto.
“Adesso vorrei dire qualcosa anch’io” esordisce Ori “Oggi sono davvero felice e “felice” è un aggettivo che sono solita usare con parsimonia. In questo posto io mi sento a casa, si sentono a casa tutte le parti di me, anche quelle che può capitare a volte che in una persona si scontrino: cervello, cuore, mente, pancia. Io non vengo qui a fare del bene, io vengo qui perché sto bene. Semplicemente perché quello che succede qui corrisponde alla mia personale visione di come dovrebbe essere il mondo”.
Semplice e forte. Grazie Ori. E auguri

“In tanti fraintendono il significato di “potere della gente”. Prima di tutto “la gente” non è unita di per sé, e la frase non si riferisce a un potere fisico. Non si intende il potere di resistere ai proiettili o agli attacchi dei droni. Quel tipo di “potere della gente” può essere abbattuto facilmente. Il vero potere della gente è il potere della memoria e della resistenza. Il potere di dedicarsi l’uno all’altro, il potere della responsabilità”.
(dall’articolo di Laurie Penny
“Prendersi cura degli altri è la rivoluzione secondo Naomi Klein”)

Vietato l’ingresso ai ragni e ai visigoti

Lo scorso pomeriggio ero a una riunione con alcuni esponenti di associazioni e insegnanti che si occupano di decostruzione di stereotipi di genere. Si parlava dei progetti fatti, delle modalità utilizzate e delle difficoltà che nel corso della propria esperienza si sono incontrate. Si parlava anche dell’effetto degli attacchi che questi progetti subiscono un po’ ogni dove in nome di una fantomatica teoria (che non ho più voglia di nominare) che serve solo a confondere le idee e a impedire di riflettere su stereotipi, accettazione dell’altro, violenza e uguaglianza. Tra i vari episodi condivisi ce n’è stato uno, in particolare, che mi ha colpita brutalmente: lo riportava un ragazzo che si occupa di progetti di contrasto al bullismo omotransfobico. Il progetto in questione, approvato dalla scuola, si sviluppava in più incontri, negli ultimi dei quali era prevista la partecipazione di alcune persone gay, lesbiche e trans che avrebbero raccontato la loro esperienza di vita. Ebbene, la scuola ha richiesto espressamente che i trans non entrassero fisicamente nell’edificio a portare la loro testimonianza.

Io sono rabbrividita. Letteralmente.

Vietato portare una persona transessuale? E se tra gli alunni di quella scuola superiore ci fosse stato un/una trans l’avrebbero sbattuto fuori? Cosa rispondono alla famiglia di un ragazzo transgender che lì vorrebbe iscrivere il proprio figlio? Che per lui  l’ingresso è vietato? Ho sentito anche racconti di progetti che sono stati fatti solo in modalità “contraddittorio”: hanno concesso a un ragazzo omosessuale di parlare a patto che ci fosse anche un altro omosessuale “pentito”, di quelli che sostengono di voler curare la propria omosessualità con le medicine. Perciò, seguendo questa logica, mi chiedo come mai quando a scuola si spiega che la terra è tonda non si abbia la stessa premura e non si inviti anche un esponente della Flat Hearth Society a dire che invece è piatta.

La domanda dentro cui si snoda tutta la questione è: perché è ritenuto lecito che una scuola pronunci frasi come “non portate i trans”? Nel cercare la risposta bisognerebbe tenere molto bene in mente che la strada dell’esclusione non prevede ritorno. Dal momento che in quello che dovrebbe essere il luogo di inclusione per eccellenza è possibile escludere qualcuno, chi decide il limite?  Se faccio un comitato genitori contro la Giornata della Memoria posso chiedere che a scuola non si portino gli ebrei a parlare dei campi di sterminio? Potrebbe infastidire i negazionisti. E poi chi? Le donne che lottano per la parità dei sessi? Potrebbero disturbare l’armonia familiare con le loro folli idee sui lavori domestici equipartiti. E dopo? Tutti quegli esseri umani che non presentano caratteristiche caucasiche? I bambini bianchi si potrebbero turbare dall’arrivo dell’uomo nero delle favole.

La realtà dei fatti, riscontrabile tutti i giorni, ci racconta di bambini e ragazzi fortemente omofobi, basti pensare a quale sia la parola principale che scelgono per offendersi l’un l’altro. E chi fa progetti su questi temi si rende conto continuamente di quanto il sessismo, l’omofobia e il razzismo alberghino nelle loro giovani menti e trovino un terreno fertile nella società che li (e ci) circonda. Non possiamo permetterci di far scivolare in secondo piano ciò che riguarda l’inclusione, la conoscenza dell’altro, il rapporto e la relazione con chi è diverso da noi: sono tempi in cui è assolutamente necessario che questi temi emergano con forza e in cui mi piacerebbe che nel leggere la frase “vietato l’ingresso ai trans” saltassimo sulla poltrona, tutti. Soprattutto se pronunciata dentro a una scuola.